La bellezza nelle spine
Un anfiteatro di luce, nuvole, piante e, a terra, piccole pietre nere: lapilli vulcanici, che qui usano in agricoltura. Terrazze digradanti a semicerchi concentrici che snodano il percorso dei visitatori, protette dai muri a secco con le belle pietre regolari dell’isola; uno spazio centrale con enigmatici monoliti di roccia curvilinea e, tutt’intorno a noi, migliaia di piante grasse, lanugini, fiori colorati, e pale e foglie e tronchi e spine, di tutti i tipi. Le piante, qui, non solo si trovano bene; sono al “loro” posto: di più, dialogano con le gemelle, quelle dell’immeditato esterno, distese di fichi d’India, che da queste parti sono una risorsa economica e una forza ambientale – coltura della cocciniglia ed estrazione del pigmento del carminio per colorare; segno vegetale inconfondibile – e quelle lontane, delle aride terre del Sudamerica, di là dall’Atlantico. Deserto chiama deserto (il Sahara è a 120 chilometri), aridità chiama sole bruciante; fratellanza di vento, mare mosso, scarsa pioggia che quando cade è gioia da benedire.
Inaugurato il 17 marzo 1990 nella località di Guatiza, il Jardín de Cactus dell’isola di Lanzarote, la più estrema (in tutti i sensi) delle Canarie, è uno scrigno di 4.000 piante succulente , 92 generi e 696 specie diverse. Ma non sono né i numeri né la tipologia né, persino, la bellezza, a fare la differenza: il segreto, invece, è la coerenza di un giardino che è progetto, speranza, modello e icona di resistenza; il segreto, invece, è la visionarietà concreta di un signore, un artista, un genio, che ha immaginato da solo un futuro remotissimo per la sua Lanzarote: César Manrique (1919-1992), figlio e padre dell’isola, se mai ce ne sia uno. Questo è stato il suo ultimo progetto di “artenatura”, una parola sola, come il concetto, come la realtà.
E alla Fondazione Benetton Studi e Ricerche di Treviso, che assegna ogni anno il prestigioso premio Carlo Scarpa per il Giardino questo gioiello non poteva sfuggire. Già: perché questa oasi incantata di piante grasse – che fu grotte, terra brulla, abitazione, lavoro, discarica – è l’ennesimo segno di attenzione verso un dialogo tra natura e cultura che in quest’isola assume, se possibile, ancora più significato.
Lanzarote è una gemma delicata, dominata da una natura violenta e ancestrale. È terra riarsa, lunare, esito di mille vulcani; un’isola grande (806 km2, quattro volte l’Elba) scossa a più riprese da eruzioni che ne hanno riscritto la storia. L’ultima, tra il 1730 e il 1736: sei anni di lava, cenere, terremoti e lapilli; esplosioni e distruzione. Il 25% del territorio dell’isola, oggi, è un sinistro e sublime parco vulcanico: nel Timanfaya, si “passeggia” in un paesaggio surreale e primordiale (qui Stanley Kubrick girò la celebre scena delle scimmie e del monolite di Odissea nello Spazio). Il «malpais» è una enorme colata di pietra nera, basalti imperscrutabili, trachiti, rocce dure, ghirigori vulcanici. Non c’è vita qui: ma ci sarà, e in tempi che non sono umani, ma geologici. Qui, infatti, dubiti del tempo, qui è il tempo statico, lentissimo, degli eventi siderali. E questa è la grande intuizione di Manrique: capire che la bellezza scabrosa della sua isola richiede il suo aiuto, per essere interpretata e non solo esposta. Dopo avere vissuto a Madrid e a New York, nel 1968 sente, irresistibile, il richiamo di casa. Torna definitivamente a Lanzarote e si mette al servizio dell’isola. La pittura, quella pittura materica, densa di sabbie e crateri, a fare il verso al suo paesaggio, interiore ed esteriore, non gli basta più. Natura e tradizione, uomo e ambiente non sono più parole vuote ma diventeranno la sua cifra e parabola artistica. Racimola le informazioni e scrive un trattato sull’architettura vernacola lanzarotena. Vede sbucare un albero, un fico, da sotterra: è così che la vita batte l’inerzia della pietra. Compra, per niente, ettari di «malpais» “inutili” e ci costruisce la sua casa: sottosuolo, in quattro “bolle”, che collega con stretti passaggi. Un unicum meraviglioso, oggi sede della fondazione che porta il suo nome e difende i suoi valori.
Manrique agisce. “Seleziona” dei luoghi dell’isola e li fa interagire con la sua immaginazione. O è viceversa? I suoi interventi rafforzano il valore paesaggistico dell’isola: lui ne enfatizza il fascino singolare introducendo artefatti artistici che danno energia creativa alle attrazioni naturali. Nascono così i Jameos del Agua, bellezza commovente: due enormi grotte vulcaniche restituite a vita inedita. In una, ecco un magico laghetto, ci vivono migliaia di granchietti albini: non più grandi di un’unghia, visti da vicino sembrano un firmamento subacqueo, rovesciato, stelline fluorescenti dentro un vulcano sopito. Nella grotta accanto, Manrique “vede”, e costruisce, un auditorium naturale: acustica e luce mistiche. E poi i miradores: spazi nei quali ridà, al nostro occhio, la sua funzione primigenia: “saper vedere”. Vedere la bellezza naturale, ma essendoci dentro: costruisce ristoranti panoramici (uno che dà sull’isoletta Graciosa, nel bel mezzo di un costone di montagna; un altro nella spettrale distesa del Timanfaya, dove il vulcano ruggisce ancora: e lui ci costruisce sopra la griglia, così da cuocere la carne direttamente con la forza della Terra), o fa “entrare dalla finestra” direttamente a casa sua la colata di lava pietrificata. Visione e compartecipazione sono la stessa cosa.
Ma la sensibilità estetica di Manrique è anche consapevolezza di essere, e volersi pensare, come comunità: lavoro di squadra, trasmissione collettiva di saperi, pratiche manuali. Non sentimento nostalgico di riproposizione di paesaggi tradizionali ma voglia di incidere, di lasciare il segno del proprio tempo, compreso il piacere del gioco. Manrique è intorno a noi: «Pastor de vientos y volcanes», come lo definì perfettamente Rafael Alberti.
Una geografia e un’arte della redenzione: ecco quello che è stata la sua opera artistica. Il segreto inconfessabile che ci tramanda è che la verità di un artista può e sa e deve vedere nel tempo, nello spazio, in perfetta armonia con la natura: anzi, senza nessuna differenza con essa. Uomo, arte e natura: un tutt’uno di possibile, inevitabile, bellezza.